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Susan Sontag - Sulla Fotografia (On Photography)
Realtà e Immagine nella Nostra Società
ed. Farrar, Straus and Giroux 1973, Einaudi 1978
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Nel panorama dei testi di critica e di riflessione intorno al fenomeno della fotografia il lavoro di Susan Sontag è un classico. Pubblicato nel 1973, in verità non nasce come un saggio omogeneo, bensì raccoglie una serie di articoli dapprima pubblicati su The New York Review of Books intorno ad alcuni problemi, estetici e morali, suscitati dall'eccessiva proliferazione delle immagini fotografiche. Per questo motivo Sulla fotografia è un libro estremamente ricco di stimoli e di illuminazioni, ma non ha alcuna pretesa di sistematicità né, tantomento, si propone di delineare una nuova storia della fotografia. Vi troviamo, invece, una serie di analisi eterogenee che permettono alla Sontag di pensare le conseguenze che le fotografie hanno sulla qualità della nostra esperienza quotidiana e sulle abitudini che introducono nel nostro regime scopico.

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Innanzitutto, come scrive la Sontag, «la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini. Collezionare fotografie è collezionare il mondo» (p. 4). Nelle fotografie e nell'atto fotografico è insita una qualità predatoria che si manifesta a partire dal vocabolario con cui si esprime qualsiasi fotografo, anche il più sprovveduto. Caricare l'otturatore, puntare il mirino, catturare l'evento sono tutte azioni che evocano immediatamente una partita di caccia, una caccia fotografica (espressione, questa, divenuta ormai di uso abituale nel mondo della fotografia, tanto da assurgere a genere). Ma secondo la Sontag l'immaginario fotografico non si esprime solo nell'analogia macchina-pistola-fucile, bensì anche in quella macchina-fallo, che della prima non è che una variante.
Le fotografie sembrano così favorire una consapevolezza di tipo acquisitivo per due ragioni. La prima, abbiamo visto, risiede nell'aggressione implicita in ogni click (fotografare qualcuno è sempre coglierlo come lui non si potrà mai cogliere, violarne l'intimità), mentre la seconda rimanda allo statuto ontologico delle immagini fotografiche, che si collocano su un piano diverso da quello dei testi scritti e delle immagini dipinte. Questi ultimi, secondo la Sontag, sono rendiconti del mondo, sue interpretazioni “fatte a mano”, mentre le fotografie sono pezzi di mondo, miniature della realtà che ognuno può produrre. L'immagine fotografica è quindi una diretta emanazione del reale, una traccia che il soggetto lascia su una superficie materiale (sensibile alla luce) in virtù di leggi naturali di tipo ottico e chimico, senza alcun intervento umano, salvo la semplice pressione di un tasto (in essa si realizza il sogno, che fu dei greci e dei bizantini, di un'immagine acheiropoietos, prodotta senza l'intervento umano, come quella impressa nella Sindone di Torino). Se le immagini fotografiche possono usurpare la realtà, divenendo strumento di una conoscenza scissa e indipendente del mondo circostante (una conoscenza di tipo voyeuristico), ciò accade perchè «una fotografia non è soltanto un'immagine (come lo è un quadro), è anche un'impronta, una cosa riprodotta direttamente dal reale, come l'orma di un piede o una maschera mortuaria» (p. 132).
Per questo, secondo la Sontag, l'immagine fotografica vanifica tutte le dispute che nella cultura occidentale, fin dal pensiero platonico, hanno cercato di descrivere il senso della relazione che lega l'immagine all'originale. Sposando la nozione di traccia, infatti, si dovrebbe conseguentemente rinunciare all'idea dell'immagine stessa o, quantomeno, a quel concetto di somiglianza che da sempre ne ha definito la natura. La fotografia come traccia o impronta del reale non pone tanto il problema della somiglianza, quanto quello di una vera traslazione dell'evento.
Ma nel testo della Sontag non troviamo solo considerazioni teoretiche sullo statuto dell'immagine fotografica, bensì anche un racconto della storia della fotografia, soprattutto di quella americana del XX secolo. Così incontriamo i nomi di Edward Steichen, Alfred Stieglitz, Walker Evans, Paul Strand, Edward Weston, Ansel Adams, Weege, Diane Arbus, Robert Frank.
Fra le pagine dedicate a questi autori, molto interessanti sono le riflessioni sull'opera di Diane Arbus, fotografa di New York morta suicida nel 1971. L'opera della Arbus mostra una vera ossessione per ciò che è mostruso e insolito: le sue fotografie ritraggono soprattutto individui tristi, affetti da handicap fisici o psichici, transessuali, nani, giganti, circensi. Una umanità di paria che la fotografia ci restituisce nella sua anomala e dignitosa identità, spesso congelata da un colpo ravvicinato di luce flash.
Motivata in parte da una rivolta personale contro l'estetica del fascino perpetrata dalla fotografia di moda, in cui la Arbus ha per lungo tempo lavorato, la sua opera in verità è un buon esempio, secondo la Sontag, della tendenza dominante nell'arte dei paesi capitalistici: «quella di eliminare, o almeno di attenuare, il disgusto sensoriale e morale. Gran parte dell'arte moderna si sforza di abbassare la soglia del terribile» (p. 36). Nelle foto di Diane Arbus si manifesta in modo drammatico quello che secondo la Sontag è l'effetto generale delle immagini fotografiche, nella misura in cui ci offrono un'esperienza visiva illimitata del reale. Tutto può essere visto, anche ciò che era un tempo sconveniente e illecito: ma a quale prezzo? Se la fotografia gode di un rapporto consustanziale con il reale, l'esposizione prolungata alle fotografie comporta una de-realizzazione dell'esperienza del mondo che diminuisce la nostra capacità di interagire con esso. La visione abituale dell'orribile ci anestetizza e ci paralizza: abituati a vederlo nell'immagine, non sappiamo più reagire a esso nella realtà. Questa tesi provocatoria, che definisce la cifra della riflessione di Susan Sontag sulla fotografia (almeno in quest'opera degli anni Settanta), investe la capacità di denuncia politica e sociale della fotografia stessa, fino a sollevare una serie di problemi ancora di estrema attualità. Possono le fotografie, mostrandoci le atrocità e le ingiustizie del mondo, generare una risposta individuale, una presa di coscienza sociale che possa anche scaturire in interventi concreti? Le fotografie possono creare una posizione morale in chi ne fruisce? Secondo la Sontag non possono, perchè le fotografie agiscono sempre in un contesto politico-sociale determinato, il quale definisce le possibilità dei loro significati. Le fotografie, semmai, possono rafforzare e consolidare una serie di valori già in via di formazione. Se l'atrocità dell'evento che l'immagine fotografica testimonia non è sentita come tale, l'immagine di per sé non può nulla: sarà vista come un qualcosa di irreale o, per usare un'azzeccata espressione della Sontag, come un deprimente colpo basso.
Il testo della Sontag si sofferma ancora su molti altri problemi cruciali messi in gioco dalla diffusione della fotografia che sono difficilmente elencabili. Si tratta, ad esempio, della frammentazione della realtà favorita dalle fotografie, del loro porsi come surrogati dell'esperienza, della loro capacità di reinstaurare un rapporto magico con il reale, del loro surrealismo implicito, delle conseguenze sulla fruizione delle opere d'arte e della natura, ecc. Per tutti questi motivi, Sulla fotografia, seppur nato all'interno di una società attraversata e sconvolta da eventi a noi lontani (dal Vietnam al '68), resta ancora oggi una lettura capace di restituirci le infinite sfaccettature del rapporto fra realtà e immagine fotografica.

Emiliano Ferrari


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