OMAGGIO A CARLO BEVILACQUA

FOTOGRAFIE 1950.1986

 

«Bevilacqua è un anziano giovane
che spesso ci meraviglia con belle
invenzioni visive … »
(Paolo Monti, «Ferrania», agosto 1953, p. 8)

Sono trascorsi trentatre anni da quando Paolo Monti, che al solito non era troppo benevolo nei suoi rigorosi, cauti giudizi, scriveva questo simpatico elogio per Carlo Bevilacqua, eppure il nostro fotografo continua a meravigliare anche oggi, ottantaseienne, con la giovinezza della sua fotografia, aggiornata, di volta in volta, fin dall’esordio amatoriale nel 1942, sugli stilemi dell’avanguardia internazionale, con un entusiasmo inesauribile, di buon auspicio per il suo futuro, che gli auguriamo felice, dentro e fuori la fotografia.
Qualche mese fa, in una sua lettera-diario, Bevilacqua mi spiegava come gli era venuto «spontaneo il desiderio di legare occhio e anima per riprendere ciò che forse ad altri rimane inosservato … »; la fotografia, con la sua immediatezza tecnica, gli fu quindi subito funzionale, e da allora è stata un’esigenza quasi fisiologica, che ha portato Bevilacqua a un’attenta analisi del suo habitat e a una comunicazione visiva del suo pensiero, mai interrotta in questi anni, ma, anzi, rivitalizzata, specialmente durante i giorni del terremoto, vissuto con occhio partecipe, o tra i nuovi giovani, così diversi dai contadini delle sue prime immagini friulane.
Egli si è imposto, come fotografo, una insistente ricerca di simboli visivi da catalizzare nelle sue accattivanti figure retoriche (contrasto, similitudine, analogia … di forme, di significati), alcune delle qualiaddirittura connotano sinteticamente certi momenti della fotografia europea dell’ultimo dopoguerra.
Carlo Bevilacqua aveva superato rapidamente !’«apprendistato», sottraendosi anche al facile pittorialismo di provincia, di cui in Friuli c’era d’altronde una vecchia scuola, dei Bujatti, Antonelli, Brisighelli … , prolungatasi un po’ troppo, però, in nome di un’Arcadia che forse non era mai esistita.
In Italia, comunque, s’era scatenata, specie tra il 1947 e il 1955, una diatriba, per certi aspetti fertile, tra «formalisti» e «realisti», cancellando definitivamente il pictorialism, ma sollecitata tuttavia dai consueti modi di intendere la fotografia, atavicamente sospesa tra l’ipotesi di creatività («artisticità») del mezzo, oppure di mera riproduttività meccanica («documentarismo»), in un banal-dibattito sull’ «Arte fotografica», d’altronde non ancora concluso e che riemerge, di tanto in tanto, non soltanto tra i fotoamatori.
Bevilacqua cercò di mediare le opposte tendenze, collocandosi con un suo «realismo poetico» tra l’estetismo dei fotografi del Gruppo «Bussola» e il fotoreportage sociologico, che allora ancora era utile, piuttosto che ai rotocalchi popolari d’evasione, ad alcuni giornali intellettuali, come «Il Mondo», «Comunità», «Il Contemporaneo».
Ma Carlo Bevilacqua ha aristocraticamente privilegiato sempre il suo spontaneo lirismo, la sua religiosità (a quel tempo era di moda anche la parola «umanità»), cercando nel reale immagini che spesso sono d’una struggente malinconia, magari incarnata in un volto triste e attonito di bambino, nelle rughe d’un vecchio, nell’umidore delle pietre o degli intonaci dei muri di montagna, nel grigiore abbacinante di un cielo di palude … , immagini del degrado storico, della fatiscenza fisica, che di volta in volta tende a essere, nelle sue fotografie, il simbolo apocalittico di un microcosmo denso di tristezza, fissato in strutture geometriche calibrate con estrema precisione di segni, spazi, toni, questi ultimi controllati da una estesa gamma di grigi, spesso però quasi bianchi, e da neri lucenti e profondi, ottenuti con alchimie invidiabili e segrete, che oggi d’altronde nessuno possiede più. Bevilacqua, dalla sua Cormons (ma è nato a Fagagna nel 1900), ha diffuso magistralmente (quanti sono i suoi inconfessati allievi?) per oltre quarant’anni un’indimenticabile immagine del Friuli, di grande poesia, ed è ormai impresso nella storia della fotografia italiana, dopo i Bricarelli, Moncalvo, Balocchi, Bertoglio, Ornano, Leiss … , accanto ai Cavalli, Finazzi, Bonzuan, Donzelli, Bolognini … , ma assai vicino ai più giovani Monti, Del Tin, Roiter …
Con Fulvio Roiter, val la pena di ricordare, Bevilacqua realizzò a Udine, nel 1952, la sua prima mostra personale, nella suggestiva cave del Circolo Artistico Friulano, sotto il Palazzo Municipale, dove tanta storia della cultura friulana è transitata nel primo decennio dell’ultimo dopoguerra; in quello stesso anno, fu proprio il generoso ed entusiasta Carlo Bevilacqua a prestare a Roiter la sua lucente Rolleiflex, con la quale il giovane prodige veneziano fotografò la Sicilia in un indimenticabile reportage, che lo rivelò internazionalmente.
La lunga vita di Bevilacqua è contrassegnata anche da questi gesti d’amicizia, una vita  totalmente spesa «per la fotografia». 

Italo Zannier
Settembre 1986

 

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